Le Pasque veronesi

Col nome di Pasque Veronesi, fu chiamata l’insurrezione generale della città di Verona e del suo contado, scoppiata il 17 aprile 1797, lunedì dell’Angelo.

Verona e la Serenissima prima della Rivoluzione
Verona, sul finire del secolo XVIII, conta all’incirca 50.000 anime,che raggiungono le 230.000 comprendendovi anche la provincia. Un moderato benessere economico è diffuso anche nelle classi sociali meno abbienti, favorito da quasi cinquant’anni ininterrotti di pace. Il patriziato veronese, proprietario di cospicui fondi nel contado, migliora le condizioni di vita delle campagne, mentre in città l’antica e celebre industria della seta è ricercata e produce soprattutto per l’estero.L’amplissima autonomia amministrativa e giurisdizionale di cui gode Verona e la irrisoria pressione fiscale non fanno che accrescere il filiale affetto delle popolazioni verso la Serenissima. La concordia tra le varie classi sociali e lo spirito religioso, straordinariamente radicato in tutti i ceti,completano il quadro di una società ordinata e pacifica, naturalmente ostile alle inaudite idee che dalla Francia giacobina stanno contagiando anche l’Italia Settentrionale. Anche a Verona, infatti, la massoneria – principale istigatrice della sovversione – cerca aderenti, ma gli affiliati sono pochi e presto l’attenta e discreta vigilanza degli Inquisitori di Stato – forse l’unica magistratura veneziana ancora efficiente ed all’altezza del suo glorioso passato – ne scopre le trame tenebrose, smantellando le logge e disperdendone i membri. La pressoché assoluta partecipazione popolare alle pratiche cattoliche, un clero ancora immune dall’infezione rivoluzionaria, la presenza di numerosissime confraternite laiche in tutto il territorio impediscono l’affermarsi dell’eresia giansenista, i progressisti di allora, fautrice delle idee sovversive di Francia.

L’invasione napoleonica

Nel marzo del 1796, Napoleone Buonaparte, un oscuro ufficiale còrso (favorito dell’amante di Barras, allora capo del Direttorio francese)già distintosi qualche mese prima nel cannoneggiamento della folla parigina, giunge al comando dell’armata d’Italia,incaricato di aprire un fronte secondario, rispetto a quello delReno, contro l’Austria Imperiale. Le insospettate doti del Bonaparte, la sua spregiudicata condotta militare (disprezzo della parola data e delle regole cavalleresche che fino ad allora disciplinavano la guerra, ricorso all’oro pur di corromperei generali avversari, saccheggio sistematico dei territori occupati anche se neutrali, mantenimento e alloggiamento delletruppe a spese delle popolazioni civili trattate come nemiche,oppressione dei vinti) un servizio di spionaggio assai più efficiente e remunerato di quello dell’avversario, l’aiutopotente della massoneria e delle altre sette segrete, il ricorso agli stupefacenti (la famosa cantaride) per galvanizzare i soldati di leva, quando il fanatismo dei commissari rivoluzionari incaricati di sorvegliarli da solo non bastava e tanta fortuna,spiegano i successi mietuti dall’armata fra il 1796 ed il 1797. Occupati il Piemonte e la Lombardia austriaca, col pretesto d’inseguire gl’imperiali in fuga, Bonaparte invade anche i territori neutrali della Serenissima Repubblica di Venezia, che aveva rifiutato le ripetute offerte di alleanza militare sia dell’uno che dell’altro belligerante. Il 1° giugno 1796 Napoleone entra in Verona con le micce accese ai cannoni, nell’ostilità generale. Subito i suoi si distinguono in ruberie ed empietà, infischiandosene della neutralità veneta ed impossessandosi delle fortezze e del relativo armamento. Vinti gl’imperialia Rivoli, nel marzo 1797 il piano di sovvertimento della Serenissima si realizza: Bonaparte spinge un pugno di cospiratori bergamaschi e bresciani ad un colpo di Stato, per staccare Bergamo e Brescia dalla Serenissima, le quali si proclamano repubbliche indipendenti, mentre sono in realtà soltanto dei fantocci protetti dalle baionette d’Oltralpe. Crema è rivoluzionata a tradimento dagli stessi francesi. Tutta la Lombardia veneta è in fiamme. Salò è contesa da giacobini eabitanti delle vallate, incondizionatamente fedeli al leone diSan Marco, i quali, guidati da un eroico sacerdote, Don Andrea Filippi, hanno alla fine la meglio e chiedono soccorso ai veronesi. I giacobini sono però decisi non solo a riprendere Salò, ma anche a marciare su Verona. Per non essere a sua volta rivoluzionata con la violenza o coltradimento, Verona fidelis dà subito prova della sua lealtà al legittimo governo, chiedendo al Senato Veneto di potersi armare e difendere dai giacobini bergamaschi e bresciani.Quarantamila veronesi in armi, fra cui numerosi sono i contadini delle cernide, guidati dal giovane generale Antonio Maffei, si schierano a presidiare il confine col bresciano,liberano diversi abitati e giungono addirittura ad assediareBrescia; la coccarda giallo-azzurra coi colori cittadini è il loro emblema. Il vescovo di Verona, Mons. Gianandrea Avogadro,modello di carità per tutti i combattenti controrivoluzionari, dà ordine di fondere le argenterie delle chiese per la salvezza della patria. In città, tra l’imbarazzo e l’apprensione dei francesi barricati nei castelli, è tutto un pulire spade elucidare moschetti, mentre compaiono ad ogni angolo di strada cartelli e scritte di Viva San Marco! Tutte le porte sono sorvegliate a vista dalla Guardia Nobile, una milizia volontaria appositamente costituita dalle autorità veronesi, a testimonianza di una sfiducia ormai diffusa verso le forze armate nazionali, vincolate dal Senato al rispetto della scellerata politica di neutralità disarmata. Così, pur di tenere fede a tale politica, la Repubblica, fedele alla propria neutralità, proibisce però ai veronesi qualsiasi atto di ostilità contro ifrancesi, i quali, da Milano, da Mantova e da Ferrara-Padova si mettono intanto in marcia contro l’esercito veneto-scaligero del Maffei e contro la città.

pasque veronesi

Il 17 aprile 1797, lunedì dopo Pasqua, le continue provocazioni francesi fanno sorgere i primi incidenti. Quando, alle 17, durante i vespri, le batterie dei castelli sovrastanti la città e che sono in mano nemica, iniziano a cannoneggiarla, i veronesi esasperati insorgono come un sol uomo al grido di Viva San Marco!, mentre le campane a martello avvisano anche il contado che la sollevazione generale è iniziata. Per nove giorni si combatte casa per casa; tutte le porte sono liberate; assaltate le piazzeforti; inviate richieste d’aiuto a Venezia, nel cui nome e nel cui interesse si battaglia e si muore . Il popolo, inesperto nel maneggio dei cannoni, è soccorso da sei artiglieri imperiali, liberati dalla prigionia di guerra. Si assedia Castelvecchio.

castelvecchio

Trasportati i pezzi da fuoco sui colli di San Mattia e di San Leonardo, il popolo cannoneggia dall’alto i rivoluzionari francesi asserragliati dentro Castel San Pietro e Castel San Felice: altri duecento soldati imperiali combattono confusi nella mischia. A capitanare i veronesi sono il Conte Francesco degli Emilei ed il Conte AugustoVerità. A migliaia i contadini si precipitano a soccorrere Verona. Giungono per primi gli abitanti della Valpolicella, che si offre di condurre tutti i suoi uomini; scendono i montanari dalla Lessinia; altre colonne di volontari in armi arrivano dalla bassa e dall’est veronese. Il popolo avanza palmo a palmo verso i forti, respinge ogni tentativo di sortita da parte del nemico e tratta da traditore chiunque voglia patteggiare con lui. L’infido generale Beaupoil, che dai castelli sopra la città, la batteva con le artiglierie, disceso a parlamentare, ben presto perde tutta la sua tracotanza, piagnucola e si vede salvata la vita dal Marchese Giona, che lo sottrae al linciaggio della folla esasperata. Gli ebrei del ghetto parteggiano senza esitazione per i nemici, offrendo loro ricetto e armi. Dalla perquisizione del ghetto saltano fuori in effetti tre casse di esplosivo ed altro materiale bellico, da essi occultato, per metterlo a disposizione dei rivoluzionari francesi. Castelvecchio alza bandiera bianca: viene ordinato il cessate il fuoco, ma i rivoluzionari francesi, scorgendo che gli assedianti, imprudentemente, si erano troppo avvicinati al castello, ne approfittano per scaricare a tradimento contro di loro un cannone a mitraglia, facendone strage. Una pattuglia imperiale, che reca purtroppo la notizia dei preliminari di pace ( firmati in quei giorni a Leoben tra Bonaparte e L’Impero Austro-Ungarico), è accolta in delirio dalla popolazione che la crede invece un’avanguardia degl’Imperiali, prossimi a liberare la città dagli odiati giacobini. A Pescantina l’eroica resistenza degli abitanti blocca l’avanzata di una colonna francese, impedendole di traghettare l’Adige, eroismo che diciannove pescantinesi, fra cui donne e bambini, pagano con la vita, moschettati o arsi vivi nelle loro case. A Venezia, intanto, Emilei non ottiene gli aiuti sperati e deve rientrare a mani vuote. Sul lago il generale Maffei, attaccato dagli eserciti francesi provenienti da Milano, deve arretrare, fedele alla consegna del Senato di non scontrarsi con essi, ma a San Massimo e a Santa Lucia il 20 aprile s’ingaggia battaglia aperta; lo scontro volge in un primo tempo a vantaggio dei soldati veneti ed è quella l’ultima volta che la vittoria arride a San Marco, ma poi, sopraffatti dal numero, essi sono costretti a ritirarsi tra le mura. Alla fine di nove giorni di combattimenti i francesi contano a centinaia le vittime lasciate sul campo in quella che è diventata, per l’esercito più potente d’Europa, una cocente sconfitta militare. Poco più di un centinaio sono i caduti veronesi.

fanteriaCirca 2.400 sono i prigionieri francesi catturati, dei quali 500 sono militari,altri 900 appartengono al personale civile dell’esercito napoleonico assieme ai loro familiari: tutti erano stati condotti in Piazza dei Signori, presso il palazzo dei rappresentanti veneti a Verona. Altri 1.000, infine, degenti negli ospedali cittadini, sono ivi piantonati dagli stessi veronesi per preservarli da ogni vendetta. La sorte della città, privata di ogni soccorso esterno, è tuttavia segnata; ma il popolo non vuole ancora arrendersi. In provincia si susseguono le esecuzioni sommarie: in località Ca’ dei Capri, presso San Massimo, cade fucilato sotto il piombo francese un giovanissimo sacerdote, Don Giuseppe Malenza, che guidava un gruppo d’insorgenti. Dalle alture i giacobini veronesi, traditori della loro patria, suonano fanfare militari per l’imminente crollo dell’aborrita Verona. Infine, assediata da cinque eserciti, bombardata giorno e notte, tradita dai Provveditori Veneti che l’abbandonano per ben due volte pur di non violare la chimerica neutralità, Verona capitola il 25 aprile1797, giorno di San Marco, dichiarando al tempo stesso, con un gesto simbolico che sottolinea il disprezzo per l’ignavia ed il tradimento dei veneziani e che la eleva a rango di capitale,cessato il dominio veneto su di essa. La vendetta rivoluzionaria e la fine della Serenissima.

Disarmato il popolo, resi inservibili i cannoni, presi in ostaggio i sedici più eminenti concittadini (fra cui il vescovo, l’Emilei, Verità e tutte le più alte cariche) il 27 aprile i francesi rientrano in Verona. Per prima cosa saccheggiano il Monte di Pietà, la banca dei poveri. Vengono imposte contribuzioni enormi, depredatele opere d’arte, mentre una commissione militare è incaricata di far deportare alla Guyana i cinquanta colpevoli principali dell’insurrezione. I traditori veronesi, peggiori dei loro padroni, vorrebbero mutare nome a Verona (ribattezzando la Città della Eguaglianza) essendosi macchiata dell’onta di essersi ribellata a cotanti liberatori e vorrebbero punire con una pubblica decapitazione sul corso, tutti i capi famiglia protagonisti della gloriosa difesa della propria città e del proprio legittimo ed amato governo. Sono gli stessi francesi, per non aggravare la tensione, ad impedire la consumazione del massacro.
Ma la vendetta non si fa attendere: il 6 maggio 1797 sono arrestati nella notte e mandati a morire tra il16 maggio, l’8 e il 18 giugno, dopo un processo politico farsa tenutosi a Palazzo Ridolfi Da Lisca, attuale sede del Liceo Scientifico Messedaglia, Giovanni Battista Malenza (fratello diGiuseppe) del controspionaggio veneto, al quale i giacobini l’avevano da tempo giurata e che era stato uno dei capi dell’insurrezione cittadina, i Conti Emilei e Verità le cui case sono abbandonate al saccheggio ed il vecchio frate cappuccino Luigi Maria daVerona (al secolo Domenico Frangini) morto in concetto di santità.Disgustato dall’empietà dei sanculotti, in una lettera ad un suo confratello, intercettata, li aveva definiti peggiori dei cannibali, perché questi ultimi avevano levate le mani solo contro gli uomini, mentre i repubblicani francesi le avevano levate contro Dio.
Rifiutatosi di disconoscere la paternità della lettera o di farsi passare per pazzo o per ubriaco, Padre Frangini affronta il martirio, raggiante, al suono scordato dei tamburi. Anche i popolani Pietro Sauro, Andrea Pomari, Stefano Lanzetta e Agostino Bianchi subiscono analoga sorte: fucilati tutti a destra di Porta Nuova, guardandola dall’esterno. Non appena rioccupata la città, i rivoluzionari francesi decidono l’immediata deportazione in massa in Francia, via Cisalpina e quindi via Milano, dei 2.500 uomini della guarnigione veneta che aveva difeso la città ed in particolare del Reggimento di Fanteria Treviso. Per accoglierli, la patria dei liberatori dell’umanità istituisce il primo universo concentrazionario moderno. Da quei campi di prigionia e di sterminio, tornarono meno della metà, dopo la pace di Campoformio, rimpatriati, sul finire di quel terribile1797 e nei mesi successivi, attraverso la frontiera del Reno, passando per i territori amici dell’Impero. La maggior parte di quei militi, colpevoli soltanto di aver fatto il proprio dovere, morì di fame o di stenti in Francia; altri ancora sulle strade del Brennero o del Tarvisio, sulla via di casa.
Nei mesi successivi giacobini veronesi e rivoluzionari transalpini si sfogano ad elevare alberi della libertà e piramidi, a depredare in Cattedrale la venerata immagine della Madonna del Popolo e ad altri sacrilegi, a lanciare spropositi dalla sala di pubblica istruzione, proponendo ad esempio di bruciare tutti i confessionali, di far mitragliare in Stradone San Fermo gli ecclesiastici o di distruggere le Arche Scaligere, perché innalzate sotto un regime anti-democratico. I leoni di San Marco vengono abbattuti, gli stemmi nobiliari e i rispettivi titoli proibiti, sotto pena di pesanti multe per chi soltanto osi pronunciarli.
Addirittura, per giustificarsi di aver aggredito una città ed una Repubblica neutrale ed in pace con loro,rivoluzionari transalpini e giacobini veronesi rovesciano le loro responsabilità sulle vittime, inventando la favola del massacro di Verona e facendo passare l’insurrezione di una città stanca della tirannia dei suoi pretesi liberatori, come un eccidio di massa, programmato e freddamente realizzato, di soldati francesi malati o feriti. A questa menzogna sono ispirate quasi tutte le stampe dell’epoca relative alla sollevazione di Verona. Proclamate le elezioni, i giacobini, giunti al potere solo grazie alla forza francese d’occupazione, speravano di vedere legittimata la loro usurpazione. Quale delusione, quale rabbiosa reazione quando si vedono sconfitti in quasi tutti i collegi dagli appartenenti all’antica classe nobiliare! Naturalmente, il verdetto popolare non viene rispettato dai democratizzatori; il generale francese, al quale spetta l’ultima parola, estromette a forza gran parte degli eletti, giudicati troppo legati all’antico regime e ripesca i perdenti. Il vescovo viene infine di nuovo arrestato: la prima volta, non avendo voluto benedire l’albero della libertà, aveva scampato per un solo voto il plotone di esecuzione; adesso, pochi giorni prima che i rivoluzionari d’Oltralpe evacuino definitivamente la città, questi lo vogliono costringere con la prigione a concedere il divorzio ad un ufficiale francese. Mentre Verona geme sotto l’arrogante sferza della Rivoluzione, le autorità veneziane consumano l’ultimo tradimento della Repubblica,rinunziando a difendersi, pur non avendo Bonaparte alcun naviglio per conquistare Venezia, alla quale aveva frattanto dichiarato guerra. Il 12 maggio 1797 lo stesso Doge Ludovico Manin propone al Maggior Consiglio, per le cui deliberazioni mancava quel giorno oltre tutto il numero legale, la devoluzione del potere al popolo e la democratizzazione rivoluzionaria. Le uniche autorità che si erano condotte con onore, gl’Inquisitori di Stato e l’eroico capitano Domenico Pizzamano, il quale, obbedendo agli ordini,aveva bombardato e costretto alla resa un vascello nemico insinuatosi in laguna, sono tratti in arresto, come chiesto da Bonaparte e dai suoi. Per ironia della sorte, quella nave francese si chiamava Il liberatore d’Italia. Non soltanto, ma un tumulto popolare antifrancese e in difesa della Serenissima che scoppia a Rialto, è soffocato nel sangue dalle stesse autorità venete. Dopo mille anni di splendore e d’incontrastato dominio del leone alato di San Marco, durante i quali il glorioso gonfalone della Serenissima era sventolato su tutti i mari, temuto e rispettato perfino dal Turco, l’antica città dei Dogi è consegnata ad un nugolo di municipalisti intriganti e parolai, che piantano l’albero della libertà in San Marco e che usurperanno il potere fino all’ingresso trionfale, degl’imperiali in città, nel gennaio 1798.

Dopo diciotto mesi d’incessanti soprusi, il 21 gennaio 1798, le divisioni imperiali comandate dal Barone Wilhelm von Kerpen, da Porta Nuova entrano in formazione di parata in città, accolte da una popolazione in delirio. Nel TeDeum in Cattedrale il vescovo invita magnanimamente ad evitare le vendette, mentre il teatro resta aperto e tutta la città è pavesata a festa ed illuminata in segno di giubilo per quella notte memorabile. Verona non dimentica i suoi eroi. I corpi senza vita dei tre sfortunati difensori della città (Emilei, Verità e Malenza) come degli altri suppliziati, che erano stati sepolti frettolosamente in una fossa comune nel camposanto della Santissima Trinità, il 6febbraio 1798 sono dissotterrati ed inumati nelle rispettive tombe di famiglia. E, per decreto del Consiglio Nobiliare cittadino, nella chiesa di San Sebastiano, di giuspatronato della città, il 23 settembre 1799 si tiene una solennissima cerimonia,a cui partecipano tutte le autorità cittadine, vestite a lutto. Per l’occasione viene eretta un’imponente macchina funebre, fregiata di numerose ed eleganti incisioni che ricordano le principali gesta di quei martiri.

Pensieri di un fante Oltremarino sul ponte di Verona e rivolti a un soldato francese.
Fatti riferiti alle Pasque Veronesi (A).

Ah pascia viro, ti e anca to mare. Ti dormi qua sul ponte? Ah? Maledetto! Nel Stato de San Marco, nostro Pare, come ti fusi a casa, su to leto? Ti ga rason che nostro benedetto Principe te vol ben, te vol salvar, e al me Palosso me ga meso lucheto, ma lu te vorria, da amigo saludare.

Ah se podesse… ma zà che non poso parchè za muli cata sorte a muchj far rossa to camisa con Palosso: ma ti, se ti xe amigo, adeso, muci se Principe lo sa, povero Brate.

Ah porco, tu e anche tua madre, ti dormi qua sul ponte? Ah? Maledetto! nello Stato di San Marco, nostro Padre, come ti fossi a casa, nel tuo letto? Hai ragione che il nostro benedetto Principe (1) ti vuole bene, ti vuole salvare, e al mio Palosso (2) ha messo il lucchetto (3) che invece ti vorrebbe, da amico salutare (4)

Ah se potesse… ma sa che non posso, perché troppa gente mi potrebbe vedere, far rossa la tua camicia con il mio Palosso: ma tu se sei mio amico (5), adesso, stai zitto, perché se il mio Principe lo viene a sapere, povero Brate. (6)

(1) riferito al Doge di Venezia.
(2) Palosso, spada larga di lama ad un sol taglio, atta a squartare, in uso agli Schiavoni.
(3) mi ha proibito. 
(4) riferito al Palosso.
(5) riferito al Palosso.
(6) termine con cui gli Schiavoni si chiamavano fra di loro, suona come fratello/cugino.

(A) L’ Oltremarino, termine che identificava gli Schiavoni, trova un soldato francese sul ponte di Verona, la neutralità con cui la Repubblica Veneta aveva deciso di mantenere , proibiva ai suoi soldati di prendere le armi contro l’invasore francese, ma non tutti erano di questo parere. La poesia è priva degli articoli forse per la poca padronanza della lingua veneta da parte dell’anonimo fante .